Sogni (di) prigionieri

Come se il cinema fantastico di fine anni Quaranta costituisse una piattaforma ideale per una Keats-renaissance, ecco il poeta inglese fare capolino, due anni prima, anche in Il fantasma e la signora Muir (The Ghost and Mrs. Muir, 1947) di Joseph L. Mankiewicz. «Incantate finestre spalancate sulla schiuma / di mari perigliosi in magiche contrade abbandonate» (Ode a un usignolo, 1819, vv. 69-70). E a fare capolino non in un’epigrafe più o meno convenzionale, bensì attraverso la peculiare dizione di un attore, Rex Harrison, travestito da nero fantasma galante e rivolto alla rapita Gene Tierney, la giovane vedova Muir (mare, in gaelico: siamo nel villaggio di Whitecliff, sul Mare del Nord) che ha affittato il cottage del defunto capitano di marina suscitandone le immancabili rimostranze. O, per meglio dire – se davvero si potesse dire in italiano –, “mostranze” (monstrance, “ostensione”): dal momento che il fascinoso Daniel Gregg si “mostra” senza tanti imbarazzi in veste di revenant a un’inquilina, Lucy Muir, a sua volta per nulla imbarazzata (ed è per questo che legano fin dal primo incontro, notturno ma nient’affatto spaventoso, se mai disinvolto e rilassato) dalla presenza ostinata dell’ospite. Il che sposta inesorabilmente l’asse ermeneutico dalla ghost story alla sophisticated comedy, con gran sfoggio di atmosfere gotiche de-goticizzate da un romanticismo più solare (il mare, la spiaggia, il plain air marino in cui il fantasma si muove pienamente a suo agio) che sinistro – tanto che verremo a sapere alla fine, anche se lo spettatore attento ha modo di accorgersene assai prima, che l’illustre trapassato intrattiene rapporti non meno amabili con la figlioletta di Lucy, la non meno disinibita Anne, bambina del tutto refrattaria alla paura dei fantasmi.
Non è che, in Il fantasma e la signora Muir, manchi la figura topica del prisoner. Solo che il prisoner non è Daniel Gregg, eventuale inoffensivo nosferatu finito in cattività tra le mura stregate del suo stesso cottage, bensì Lucy Muir, o, perché no?, Anne Muir, inquiline segrete di una shanned house cui si sentono legate da un troppo sollazzevole “patto con il fantasma” per avere la benché minima intenzione di violarlo. La sciarpa di Il ritratto di Jenny? I ritratti stessi di Il ritratto di Jenny? Macché. Tra le pieghe del precoce modello di crossover disegnato da Mankiewicz per l’occasione (mystery gotico più commedia sentimentale più dramma romantico più thriller ironico alla Hitchcock: le musiche sono firmate da Bernard Herrmann) si lascia affiorare, e con la massima credibilità diegetica, un ben più concreto talismano di origine soprannaturale, nientemeno che un libro a quattro mani destinato non solo alle stampe ma a un sicuro successo editoriale, dunque non un lascito di natura ultraterrena quanto un’eredità di natura quanto mai terrena e soprattutto pubblica, che trascende il destino privato (Daniel ripiombato tra le ombre in attesa della morte-ricongiungimento di-con Lucy, Anne sposa felice “emancipata” dal vincolo primario con il cottage dell’infanzia) degli stessi contraenti il patto: il libro di memorie dettato nelle interminabili ore buie dall’incantevole man in black all’incantata apprendista di termini marinareschi e solecismi da lupi di mare. Perché, come sempre in Mankiewicz, a farla da padrone non è lo storytelling in sé, e tantomeno lo storyboard (che pare non esistere). È lo storyteller in persona.

Tratto da «Cineforum» n. 514, maggio 2012

di Sergio Arecco